Cosa comporterebbe ridurre del 40% in 10 anni il rapporto debito pubblico/Pil?
Visto che in questa campagna elettorale se ne sentono ogni giorno di tutti i colori e la stampa italiana non informa e non approfondisce, facciamo allora noi dei rapidi conti: l’Italia ha un Debito Pubblico di 2.218 mld di Euro e un Pil di 1.673 mld di Euro, quindi un rapporto del 132,6%.
Ipotizziamo, per assurdo, che possa avvenire una crescita costante del Pil per 10 anni senza aumento della spesa pubblica e, quindi, rinunciando agli effetti del moltiplicatore fiscale (1,63 per la spesa in consumi di beni e servizi ed 1,55 per gli investimenti pubblici).
Ipotizzando un tasso di crescita del PIL positivo dell’1,5% nel 2018, 1,7% nel 2019, 1,9% nel 2020 e del 2,2% (che è l’attuale tasso di crescita medio dell’Eurozona) per gli anni successivi fino al 2027, avremmo al decimo anno un Pil di 2.049 mld di Euro.
Questo significherebbe che per avere un rapporto al 92,6% il debito pubblico dovrebbe essere sceso, nello stesso periodo, a 1.897 mld di Euro, quindi ridotto di 321 mld di Euro in 10 anni cioè 32 miliardi per anno!
Si risparmierebbero 38 miliardi di interesse sul debito (il tasso sui BTP decennali è del 2%), per cui, a parità di tassazione, mi pare evidente che questa riduzione sarebbe finanziata col taglio della spesa pubblica definita “improduttiva” per 283 miliardi.
Ma si può pensare veramente che in Italia ci siano oggi 283 miliardi di spesa pubblica “improduttiva”?
Una tale ricetta avrebbe degli effetti recessivi spaventosi, il Pil perderebbe circa 45 miliardi di Euro di crescita l’anno e sarebbe impossibile ridurre il rapporto debito/Pil dell’entità di cui sopra. Anzi, tale rapporto peggiorerebbe ottenendo l’effetto opposto. Che poi queste sono le stesse ricette del Fondo Monetario Internazionale che tanto piacciono alla troika a Brussels.
Passiamo poi alla questione di sforare il limite del 3% del rapporto deficit/Pil come ha fatto la Francia negli ultimi anni. Se questo avvenisse per decisione unilaterale dell’Italia sarebbe un conto, ben diverso se avvenisse per gentile e momentanea “concessione” del sovrano UE. Perchè trattandosi di concessione sarebbe soggetta, in qualsiasi momento, a revoca e porrebbe il nostro Paese in uno stato conclamato di perenne sudditanza che è poi quello accaduto da Monti fino a Gentiloni…
Detto questo, anche spendendo in deficit, rimarrebbe comunque il problema strutturale del cambio rigido che dal 2002 favorisce l’economia tedesca e la sua industria impedendo la naturale rivalutazione del cambio che ci sarebbe stata se la Germania avesse ancora il marco (a causa del costante squilibrio della loro bilancia commerciale). Per cui parte della nostra spesa pubblica andrebbe a foraggiare proprio l’export tedesco già in abbondante surplus. L’Euro continua, infatti, ad incidere pesantemente sulla competitività interna. Nei giorni scorsi si è appreso che l’ultima fabbrica Whirpool di elettrodomestici sul suolo nazionale chiuderà i battenti nel 2018. Da 2.000 addetti erano calati a 500 e, per di più, in contratto di solidarietà. La Multinazione delocalizza in Slovacchia, con buona pace dei piddini ferventi sostenitori degli investimenti esteri… Rimarranno 50 addetti per il commerciale ed il post vendita.
Sforare i parametri di Maastricht attiverebbe i moltiplicatori della spesa pubblica, ma parzialmente a vantaggio proprio della Germania e della loro bilancia commerciale a causa del dumping valutario generato dall’Euro. Ad esempio, rimpinguare il fondo nazionale dei trasporti significa aiutare le aziende di trasporto pubblico ad acquistare bus nuovi, ma l’Italia non ha più una produzione industriale di questo tipo sul suolo nazionale. L’Iveco produce in Francia e Repubblica Ceca. L’ex BredaMenarinibus, acquistata dai cinesi della King Long, pare voglia delocalizzare in Turchia. Per cui comprare bus nuovi significa portare ricchezza all’esterno, soprattutto nelle casse di Mercedes e Man. Se non vengono rimosse le cause strutturali che fanno da zavorra alla nostra competitività, sarà ben difficile che un bus venga più prodotto in Italia. E gli esempi di questo tipo sono tanti, visto che mentre qualcuno ciarla di Industria 4.0 l’Italia dal 2008 ad oggi ha visto volatilizzare il 25% del suo apparato industriale.
In risposta a questo post di Alessandro col quale concordo in pieno, voglio rendere noto che, a breve, verrà lanciata da eurostop, una raccolta di firme su due leggi di iniziativa popolare per l’ abrogazione dell’art. 81 c e per rendere possibile un referendum contro la ue.
La legge di revisione costituzionale ,che ha introdotto il pareggio di bilancio in costituzione, ha ucciso l’ar.3 c, vero architrave della carta. Con il pareggio di bilancio si cancella il ruolo attivo dello stato nella gestione del sistema economico, togliendogli gli strumenti di politica fiscale, dopo che l’introduzione dell’euro gli aveva tolto quelli di politica monetaria. Oltretutto il fiscal compact non imponeva la revisione della costituzione, potendosi utilizzare una legge ordinaria.
La revione ha lo scopo di riportare il testo costituzionale a quello originario, aggiungendo un comma, col quale si ribadisce che le politiche di austerità non possono ledere in alcun modo il livello delle prestazioni pubbliche necessarie per la fruizione dei diritti sociali.
Una volta lanciata la campagna, ritornerò sull’argomento, specificando meglio le riforme proposte.
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