L’episodio di bullismo verso un docente verificatosi pochi giorni fa a Lucca lancia l’ennesimo segnale sullo stato di degrado e abbandono che caratterizzano ancora buona parte del mondo scolastico e sulla criticità della condizione giovanile attuale che certo non è solo italiana. Nonostante la riproposizione ossessiva di questo episodio sui social ho preferito personalmente evitare di vedere il video, una piccola vigliaccheria forse, ma anche perché non ne avrei sopportato il disagio conseguente e mi avrebbe tolto quel tanto di lucidità necessaria a cercare di capire. Il video comunque si presentava con la frase detta dal ragazzo al docente, contenente l’ordine di dargli una sufficienza e di inginocchiarsi. E tanto basta.
Per quanto abominevole, proprio da qui vorrei iniziare queste considerazioni, dal significato contenuto in questo gesto, perché rivela a mio giudizio qualcosa di molto emblematico. Il ragazzo dà un ordine al suo docente per ottenere un voto, se non buono, almeno accettabile.
Il professore è generalmente colui che decide della sorte scolastica dello studente proprio con il voto. Il voto dovrebbe riflettere il merito dello studente. Questa disposizione delle cose dipende ovviamente dal fatto che il professore è competente nella ‘materia’ che il discente invece deve apprendere. E’ ovvio però che si tratta non solo di questo ma di una gerarchia in base alla conoscenza che diventa gerarchia di potere. Lo studente che minaccia il professore non rifiuta il suo ruolo e non rifiuta il voto, ma vuole con l’intimidazione esercitare un potere. L’episodio è emblematico secondo me perché denuncia la condizione di ricatto dello studente, che si sente costantemente in balia del giudizio altrui, e risponde a questo con la minaccia e l’umiliazione. L’episodio ribalta il quadro senza romperne la cornice che resta appunto quella del voto, del giudizio dall’alto, verrebbe da dire della sentenza che pesa sul capo dello scolaro, salvo che adesso lo studente usurpa con la violenza il ruolo del professore.
Si è trattato veramente di bullismo? Forse il termine non è adatto, se per bullismo si intende la gratuita umiliazione e soggezione di qualcuno. Si è trattato piuttosto di una vendetta, dell’avere per una volta il coltello dalla parte del manico e osservare con piacere l’orrore negli occhi del nemico, il professore. Si tratta di una vendetta o di una ritorsione nel senso che riversa sul nemico quanto finora subito. Ma non è un gesto gratuito, bensì finalizzato a un risultato: un voto decente. Si tratta insomma di un gesto delinquenziale, che vuole appropriarsi di qualcosa senza averne il diritto e il merito. Ma la violenza del gesto conferma il valore di ciò che si vuole ottenere. In fondo è il voto che decide dello status di uno studente rispetto all’insegnante e alla scuola, ma spesso anche rispetto ai genitori e ai compagni. E in questo caso soprattutto rispetto a se stesso perché in fondo il voto resta determinante, e se l’autostima non si conquista con il sapere, cosa scontata per una scuola, la si può ben ottenere con la minaccia. Può darsi insomma che si sia trattato di un episodio spontaneo o invece concordato con i compagni per umiliare il docente – visto che qualcuno era pronto a filmare -, ma la modalità e lo svolgimento dell’episodio rivelano una sorprendente intelligenza criminale della situazione.
Questo per dire che anche nella brutalità e nell’indecenza del gesto occorre cercare di capire e non inalberarsi a giudici e moralizzatori. Il risultato altrimenti non cambia. E nemmeno è il caso di ascoltare o atteggiarsi a l’esperto di turno se poi il contributo è quello della erudita e sentimentaleggiante predica da pulpito. Ricordo di aver visto alla televisione italiana un simile commento, di un esperto di cui non ricordo il nome, a ridosso del suicidio di una quindicenne che pare non si ritenesse abbastanza bella per vivere. Oltre l’umana indignazione e la caustica denuncia dei “mala tempora” l’esperto sapeva solo ricordare che la vera bellezza non è quella esteriore ma quella dell’anima. Era un contributo a capire il problema? O non piuttosto uno schierarsi dalla parte della vittima e in difesa dell’Anima come unica fonte di vera bellezza? Se in tutto ciò che disgusta e ferisce si iniziasse a cercare un senso invece di condannarlo, si opererebbe solo conseguentemente al fatto che siamo tutti cittadini di un unico mondo e come tali degni di attenzione e comprensione, nel bene ma soprattutto nel male.
Detto questo è chiaro dunque che questo comportamento deprecabile del ragazzo va contestualizzato e compreso nella sua portata generale. Che è quella di un progressivo e generale imbarbarimento delle relazioni umane e sociali nella nostra società, dove la mancanza di libertà diventa aggressione e violenza e l’autorità viene esercitata come fine a se stessa. Partendo dal principio che un giovane, in quanto tale, si trova ad agire ed interagire in un mondo costruito da altri, dovremmo innanzitutto chiederci che cosa sia andato storto nel mondo che gli offriamo. Questa posizione è oltretutto quella più consona e obiettiva, visto che non siamo genitori del ragazzo o suoi educatori, per il quali il compito è sicuramente più difficile. Siamo tutti d’accordo quando diciamo che i giovani sono il nostro futuro, sembra una constatazione ovvia e anche un pochino magnanima perché saremmo disposti ad ammettere che oltre noi la vita in fondo continua. Ma in realtà i giovani che secondo noi avrebbero per così dire più futuro degli altri sono quelli che piacciono a noi, quelli che farebbero esattamente le stesse cose che faremmo noi – o magari anche quello che a noi non è riuscito fare.
Ed è proprio questo il primo fardello psicologico con cui il giovane si trova appesantito, quello di dover impersonare le proiezioni e le frustrazioni dei genitori. A questo proposito c’è una prima verità psicologica difficilmente controvertibile: i giovani si educano o al contrario si diseducano con il proprio esempio di vita e non con ciò che gli diciamo di fare perché è giusto o bene farlo. Questo essere esempio di vita non dipende da una particolare ammirazione o amore da parte dei giovani per i genitori, ma è un’esigenza psicologica vitale indipendente dalla volontà, poiché il giovane è stato bambino e da bambini si impara a vivere innanzitutto sull’esempio dei genitori. E sono quest’ultimi che valgono per lui in una maniera che va molto aldilà della consapevole volontà. Quando si dice che i bambini imparano dall’esempio genitoriale questo vuol dire che costoro sono per lui un intero e una unità di senso nella quale identificarsi, dalla nascita fino all’infanzia, e dalla quale poi lentamente distinguersi nell’adolescenza. Questo essere un tutto di senso è richiesto come esigenza vitale del bambino indipendentemente dalle caratteristiche dei genitori.
Questi ultimi invece vivono spesso in tutt’altra dimensione che quella genitoriale poiché devono affrontare il mondo, gli altri e se stessi, ed è soprattutto questo ‘se stesso’ che conta per il bambino e poi per l’adolescente, il quale viceversa molto spesso è trascurato e se possibile ignorato dall’adulto. Nella nostra attuale vita sociale questa cura di sé è la cosa che principalmente manca rispetto al valore dell’adeguamento alle condizioni di vita e alla sopravvivenza come individui sociali con un lavoro, una macchina, un tetto sulla testa ecc. Ora, dal momento che la situazione odierna per l’Italia e molti altri paesi è quella di un costante peggioramento della qualità della vita, è inevitabile che questo peggioramento si ripercuota sulla qualità della vita offerta ai propri figli. Questo peggioramento è generalizzato e colpisce tutti, ricchi e poveri, imprenditori o dipendenti, occupati e disoccupati, belli perché belli e brutti perché brutti.
Dunque, questo ci riporta al ‘è tutta colpa della società’? Niente affatto! Dovrebbe invece far capire che il genitore è spesso tramite di dinamiche che lo sovrastano o di cui è inconsapevole. C’è insomma una forte contraddizione da segnalare, quella per cui i genitori hanno sempre altro da fare o sono rivolti in tutt’altra direzione rispetto a quella del bambino e nonostante questo condizionano con il loro stile di vita lo sviluppo della sua personalità. Già tenere il bambino lontano dalle proprie nevrosi o frustrazioni sarebbe un compito impegnativo.
Quando abbiamo a che fare con un adolescente si sono già inseriti gli altri fattori costitutivi della vita adulta: il mondo, gli altri e la ricerca del sé. Una prima cosa ancora data per scontata, ma che lo è sempre meno, è che il mondo del giovane sia la scuola. Il mondo del giovane sono soprattutto i coetanei e gli oggetti di consumo disponibili nella società. La scuola è semmai il principale strumento di contatto tra il giovane e l’adulto, quello strumento che l’adulto ha costruito per farlo diventare utile alla società quando quest’ultima ha iniziato a incorporare sempre più sapere e conoscenze. Questo è un elemento caratteristico della vita cittadina di cui la società contadina potrebbe anche fare a meno. Qui il valore dell’esempio riguarda anche le capacità professionali e non c’è in principio bisogno di una scuola. Nelle società urbane odierne è la produzione e circolazione di oggetti ciò che rende almeno formalmente vitale questo tipo di vita. A questo presta attenzione di solito il giovane e su questo si esercitano e si accrescono la sua conoscenza e appropriazione del mondo.
Se questo è vero possiamo allora dire che il giovane vive a livello individuale quel tipo di sviluppo che ha caratterizzato ciclicamente una popolazione o settori di essa quando questa si è trovata ad affrontare uno scatto in avanti nel proprio sviluppo. Le ragioni di questo scatto in avanti possono esser state di vario tipo, come risposta a un problema ambientale, oppure di natura culturale per l’influsso di altre popolazioni, o anche, come è sempre più il caso per noi contemporanei, di natura tecnica per innovazioni o modifiche riguardanti gli oggetti che usiamo per organizzare la nostra vita. Il giovane rivive ogni volta quella fase di scoperta e appropriazione attraverso l’uso di oggetti che ogni innovazione tecnica consente e che è ormai una costante degli ultimi secoli della nostra storia. E come di solito è successo anche nelle diverse fasi di sviluppo dell’umanità condivide anche l’esaltazione e il senso di autoaffermazione di questo processo. Saper controllare e gestire un oggetto reale, dalla penna al computer, saper gestire il proprio corpo per darsi un’immagine di sé, sapersi relazionare e condividere o invece opporsi e scontrasi, sono tutti elementi che vanno a confluire nella individualità in formazione del giovane.
Questa linea di sviluppo non può essere giudicata né buona né brutta, è semplicemente una tendenza che caratterizza lo sviluppo individuale di ciascun cittadino e in ultima analisi può essere giudicata solo dall’individuo stesso. Questa linea di sviluppo può bloccarsi in qualsiasi momento, può deviare dalle norme per poi rientrarci, può essere vissuta con entusiasmo oppure essere sofferta e presto dimenticata. A buon ragione si ammette che debba essere potenziata e orientata secondo le naturali disposizioni del singolo perché poi sia lui che la società che lo accoglie ne traggano frutto. In ogni caso, quando il rifiuto del giovane verso l’adulto e il suo mondo diventa troppo forte o assume caratteri di violenza o autolesionismo, cosa anche sempre più frequente nel mondo giovanile, dovremmo ogni volta partire da questo quadro complesso e intrecciato che ho provato a delineare.
Sul carattere delinquenziale del gesto del ragazzo credo non ci siano dubbi né tantomeno sulla provenienza psicologica del comportamento, che è da ricercarsi nella condotta di vita esemplata dai genitori – i quali tra l’altro pare abbiano inflitto al figlio la punizione di non disporre del cellulare per 10 giorni, dimostrando così di continuare a non capire il problema e andando a recidere la sua principale fonte di contatto con il mondo e di fuga dalla famiglia. La devianza è sempre dovuta a sofferenza, a potenzialità impedite o che sono in conflitto per affermarsi. La violenza tradisce l’incapacità di comunicare, il non saper trovare le parole o i comportamenti adatti per manifestare al propria personalità – niente di sorprendente finché l’espressione del dolore o della propria sensibilità sono sempre più considerate una impudicizia o una mancanza di tatto e urbanità, salvo poi venir urlate e commercializzate dal mainstream. Il mondo adulto dovrebbe essere sempre pronto a una considerazione autocritica del proprio operato, soprattutto quando si arroga il diritto di segregare i propri figli per ore in scuole fatiscenti e anonime per assimilare passivamente nozioni. E i professori dovrebbero essere i primi a non praticare il bullismo, cosa che spesso invece fanno quando approfittano della loro posizione di potere nella scuola per rivalersi sugli studenti della propria giustificata frustrazione.